Google, Facebook, Amazon&Co. 636 milioni di euro non versati in Italia
Se il Governo con la digital tax, che dovrebbe scattare da gennaio, si attende 700 milioni di euro l’anno, allora l’elusione dei giganti del web in Italia è di 636 milioni di euro. Facile calcolarla, prendendo in considerazione i soli 64 milioni di euro pagati l’anno scorso da 15 OTT, secondo i dati dell’Area Studi di Mediobanca: (700-64: 636).
Uno studio che mostra come i giganti del web siano bravi a schivare miliardi di euro di tasse, appoggiandosi a giurisdizioni fiscali morbide in cui far confluire gran parte dei propri ricavi, così da assottigliare l’imponibile dove le aliquote fiscali sono più alte.
L’Italia, come molti altri Paesi, continua a pagare il conto di questa strategia spregiudicata, oggetto di critiche da parte di tanti governi ma anche dell’incapacità di essere arginata da una web tax globale. Nel 2018, rileva infatti l’analisi di R&S Mediobanca sui colossi del web, il Fisco ha incassato solo 64 milioni di euro da 15 gruppi con filiali in Italia.
Microsoft ha versato 16,5 milioni,
Amazon 6,
Google 4,7,
Oracle 3,2,
Facebook 1,7,
Uber 153 mila euro
Alibaba 20mila euro.
Il conto sale a 76 milioni se si
includono i 12,5 di tasse pagati da Apple, non inclusa nel campione.
I ricavi aggregati dichiarati in Italia
dalle websoft sono stati solo di 2,4 miliardi di euro, pari allo 0,3% di quelli
globali, con utili fermi a 64 milioni, una goccia nel mare dei 110 miliardi
registrati nel 2018. A livello occupazionale i lavoratori sono aumentati di
1.770 unità, arrivando a quota 9.800, in stragrande maggioranza assunti da
Amazon che da noi impiega 4.608 persone.
Il trucco per dribblare il fisco è sempre
quello di spostare il fatturato nelle filiali dei Paesi dove si pagano meno
tasse, rispetto alle quali le controllate italiane figurano come prestatori di
servizi.
Le transazioni concluse con l’Erario tra
il 2015 e il 2018
Apple ha pagato 318 milioni, Google 306
milioni, Amazon e Facebook 100 milioni a testa – non sono dunque sintomo di un
ravvedimento. Semplicemente le websoft trovano più conveniente ‘ottimizzare
fiscalmente’ e poi scendere a patti con la giustizia tributaria.
Grazie a Paesi come Irlanda, Lussemburgo,
Delaware, Cayman, le 25 società analizzate da Mediobanca hanno risparmiato 49
miliardi nel quinquennio 2014-2018, cifra che sale a 74 miliardi se si allarga
il campo ad Apple, con 25 miliardi di euro ‘regina’ dello slalom fiscale,
davanti a Microsoft (16,5 miliardi), Google (11,6 miliardi) e Facebook (6,3
miliardi). Non è un caso che tutte le 14 società Usa incluse nel campione, con
l’eccezione di Microsoft, hanno scelto il Delaware come sede fiscale, mentre le
7 cinesi hanno optato per le Cayman.
Le OTT valgono 8 volte Piazza Affari
Le tasse risparmiate hanno contribuito ad
alimentare quel mare di liquidità – 507 miliardi di euro – di cui le websoft
dispongono per annettere startup, consolidando la propria forza sul mercato, ed
avviare imponenti piani di buyback con cui sostenere i corsi in Borsa. Dove le
quotazioni sono cresciute in media di quasi il 20% all’anno nel 2014-2018,
portando le valutazioni a livelli record, con una capitalizzazione totale di
5.067 miliardi a metà novembre, otto volte tutta Piazza Affari.
Ministro Boccia: “Intollerabile elusione
Ott. Far pagare le tasse in cui si fa business’
“La continua elusione fiscale dei colossi
del web non è più tollerabile.
Questo governo ha avuto il coraggio di affrontare la situazione e inserire in
legge di bilancio la digital tax. Lo considero solo un primo passo verso una
web tax sul modello Ocse, che obblighi le Over the top a pagare finalmente
tutte le imposte nel Paese in cui fanno business, proprio come la nostra legge
approvata nel 2013 e poi maldestramente cancellata”. Così il ministro per gli
Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, intervenuto al
Digital Italy Summit 2019 in corso a Roma.
“L’economia ormai è tutta digitale e uno Stato serio”, ha continuato Boccia, “non può farsi travolgere dalla rivoluzione in corso, deve intercettarla e intervenire per correggerne le distorsioni”. “La nuova battaglia culturale che abbiamo il dovere di affrontare”, ha concluso il ministro, “è quella sulla portabilità dei dati, che rappresentano il nuovo oro, i dati sono nostri o sono di Tim Cook o Zuckerberg? Loro pensano che siano loro, io no. Su questo vorrei che si aprisse un confronto.
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- Su 30 Novembre 2019
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