Videosorveglianza e rapporto di lavoro, perché non basta l’accordo scritto con i dipendenti
La Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 1733/2020) chiarisce che non è sufficiente un accordo scritto con i dipendenti per installare un impianto di videosorveglianza sui luoghi di lavoro, ciò perché tale manovra non rispetta le condizioni di cui all’art. 4, I. n. 300 del 1970.
Secondo quanto
prescritto dall’art. 4 L. n. 300 del 1970, “l’installazione di apparecchiature
(da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la
sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale) ma dalle quali
derivi anche la possibilità di controllo a raggiunto, il datore di lavoro deve
far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo
da parte dell’autorità amministrativa (Direzione territoriale del lavoro) che
faccia luogo del mancato accordo con le rappresentanze sindacali dei
lavoratori, cosicché, in mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di
autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente
sanzionata.”
“Questa procedura –
frutto della scelta specifica di affidare l’assetto della regolamentazione di
tali interessi alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo
pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli,
possano autonomamente provvedere al riguardo – trova la sua ratio nella
considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro
subordinato.”
“La diseguaglianza di
fatto, e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale
dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, rappresenta la ragione per
la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile (a
differenza di quanto ritenuto invece dalla Sez. 3, n. 22611 del 17/04/2012),
potendo essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del
lavoro solo nel solo di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze
sindacali, non già dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma
della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore
di lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione
con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per
ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o
a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione.”
Quindi, ritornando alla
premessa “il consenso del lavoratore all’installazione di un’apparecchiatura di
videosorveglianza, in qualsiasi forma prestato (anche scritta, come nel caso di
specie), non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia
installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla
fattispecie incriminatrice.”
Infatti, “tale accordo
non costituisce esimente della responsabilità penale, dovendosi al riguardo
richiamare il prevalente e più recente indirizzo di legittimità che ritiene che
la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 4 in esame sia integrata (con
l’installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di
controllare a distanza l’attività dei lavoratori, come nel caso di specie)
anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali
e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa, la stessa sia
stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti (tra le
altre Cass., Sez. 3, n. 38882 del 10/4/2018, D., Rv. 274195; Sez. 3, n. 22148
del 31/01/2017, Zamponi, RV. 270507).”
Invero, la condotta datoriale,
che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o
aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare
un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli
interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in
quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto,
se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi,
abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per
la loro potenzialità di controllo a distanza, e di verificare, dall’altro,
l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di
sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le
modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento
alla loro installazione.(cfr. Cass. n. 22148 del 31/01/2017).
Peraltro, sia l’accordo
che il provvedimento autorizzativo devono rispettare i principi e le regole
stabiliti dall’interpretazione prevalente della normativa lavoristica in tema
di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei dati personali (GDPR e
novellato D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Sul punto, la
giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la mancata osservanza delle
richiamate procedure configura un comportamento antisindacale del datore di
lavoro, reprimibile con la speciale tutela approntata dall’art. 28 dello
Statuto dei lavoratori (Cass., Sez. L, n. 9211 del 16/09/1997, Rv. 508047 –
01).
Si aggiunga che
l’assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei
momenti essenziali della procedura sottesa all’installazione degli impianti,
derivando da ciò l’inderogabilità e la tassatività sia dei soggetti legittimati
e sia della procedura autorizzativa di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori.
Va rilevato che, sotto
la vigenza dell’originario art. 4 della legge 20 maggio 1970 n. 300, ma con
orientamento pienamente valido anche a seguito della novella di cui all’art.
23, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, la giurisprudenza di legittimità aveva
significativamente affermato come l’art. 4 cit. vietasse il controllo a
distanza dell’attività dei lavoratori, anche inteso nel senso di mera
possibilità di controllo ad insaputa del prestatore di opera, tanto nell’ipotesi
dell’installazione di impianti finalizzati al controllo a distanza quanto delle
apparecchiature predisposte per fini produttivi, ma comunque tali da presentare
la possibilità di fornire anche il controllo a distanza del dipendente, rilevando
come, mentre le apparecchiature finalizzate al mero controllo a distanza della
prestazione lavorativa fossero assolutamente vietate, data la loro odiosità, il
loro contrasto con i principi della Costituzione ed il danno che possono arrecare
alla stessa produttività del lavoratore, quelle di cui al secondo comma fossero
consentite, se ed in quanto il datore di lavoro avesse osservato quanto tassativamente
previsto dall’art. 4, senza che peraltro il lavoratore potesse reagire al di
fuori dei mezzi di tutela apprestati da tale ultima disposizione (Cass. Sez. L,
n. 1236 del 18/02/1983, Rv. 426020 – 01).
Lo stesso Garante per la protezione dei dati personali ha più volte ritenuto illecito il trattamento dei dati personali mediante sistemi di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui all’art. 4, comma 2, Stat. lav. e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori (cfr. relazione Garante per la protezione dei dati personali, per l’anno 2013, pubblicata nel 2014).
La ragione – per la
quale l’assetto della regolamentazione di tali interessi è affidato alle
rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico è la
diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico –
sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, e dà conto della
sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di
lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con
cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere
un consenso viziato dal timore della mancata assunzione (cfr. Cass. n. 22148
del 31/01/2017).
Del resto, anche la
previsione della sanzione penale, e in generale l’esigenza di una tutela in
forma punitiva dei diritti riconosciuti al lavoratore, trova compiuta
spiegazione in questa sproporzione, allo stesso modo con il quale il progressivo
annullamento dell’autonomia privata ha sopperito alla sperequazione sociale
nelle posizioni del datore di lavoro e del prestatore d’opera.
Da tutto ciò deriva
come non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai
singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia
di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali,
per espressa disposizione di legge, sono portatrici, in luogo dei lavoratori
che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al
datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.
La protezione di
siffatti interessi collettivi, riconducibili nel caso di specie alla tutela
della dignità dei lavoratori sul luogo di lavoro in costanza di adempimento della
prestazione lavorativa, non viene meno in caso di mancato accordo tra rappresentanze
sindacali e datore di lavoro, dovendo quest’ultimo comunque rimuovere
l’impedimento alla installazione degli impianti attraverso il rilascio di un’autorizzazione
che rientra nelle competenze di un organo pubblico, cui spetta di controllare l’interesse
datoriale alla collocazione degli impianti nei luoghi di lavoro per esigenze
organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del
patrimonio aziendale, cosicché il consenso o l’acquiescenza del lavoratore non
svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse
collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne,
rimane fuori della teoria del consenso dell’offeso, non essendo riconducibile
al paradigma generale dell’esercizio di un diritto (cfr. Cass. n. 22148 del
31/01/2017).
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- Su 3 Febbraio 2020
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